mercoledì 16 maggio 2012

Fuori dall'aula. - 2

Vorrei tornare e precisare quanto scritto nel post "fuori dall'aula".
Mi riferisco alla prima parte: "Ci sono diverse punizioni che si possono assegnare ai bambini. Se puniscono e basta non hanno senso. Devono essere chiare e motivate; meglio se inerenti alla "colpa"; una specie di contrappasso. Come nel gioco, alcuni sport lo prevedono: se giochi scorretto ti siedi in panchina qualche minuto. Questo in palestra è pane quotidiano, specialmente giocando a calcio o a rincorrersi. Superare il lecito nel gioco ti fa uscire dal gioco. In base alla gravità del fatto si modula la gravità della pena: se una cosa da poco e evidente, allora pena breve, se una cosa ripetuta e magari tendente al grave ci si ferma e si parla insieme di quello che è successo. Si cerca di capire dove è stato superato il limite, di quanto, quali le possibili conseguenze (non divertirsi, farsi del male), alla fine del discorso condiviso si torna a giocare insieme. Essere messi fuori dal gioco non è mai considerata una colpa irrimediabile, un'umiliazione: è come nell'hokey, una regola chiara da subito."

Non avevo trattato chiaramente il "perché" di una punizione. ovvero: perché si punisce? Qual è lo scopo?
La punizione è uno shock. Interrompe un movimento. Siamo insieme, giochiamo, poi arriva lo stop, sottoforma di urlo, seguito da un'azione altra da fare, che sostituisca il movimento in corso.
Perché fermare lo stare insieme? Interrompere ha uno svantaggio e un vantaggio: il primo consiste nello shock che mette sulla difensiva chi riceve lo stop. Il vantaggio è che si può valutare quello che è successo.

Occorre limitare al minimo lo svantaggio: è necessario, per esempio, interrompere il gioco, o talvolta è meglio lasciar correre e al momento opportuno si torna sull'accaduto?
Il gioco va interrotto quando c'è pericolo per l'incolumità dei partecipanti o quando lo stare (bene) insieme viene compromesso; nel primo caso la necessità è evidente, nel secondo spesso basta una pausa molto breve, un richiamo non per forza punitivo.

Questo il perché. Lo scopo della punizione invece è da rivedere. Deve azzerare lo svantaggio (lo shock) e lavorare sul vantaggio. Quindi discussione e decisione condivisa. Domande possibili: cosa ritieni sia successo? Cosa hai pensato? Cosa l'altro ha pensato, secondo te? Qual è il risultato? E ora? Come tornare a giocare insieme? eccetera...

L'argomento non si esaurisce qui. Necessita di ulteriori approfondimenti. Ci penseremo.

Stefano.

venerdì 11 maggio 2012

Uno e tanti - 2

Come procede il lavoro? Come previsto il bambino e il gruppetto non sono diventati tutti amici. Ma l'atteggiamento tra loro è cambiato. Riescono a fare i compiti allo stesso tavolo non solo senza darsi vicendevolmente fastidio, ma talvolta persino interagendo civilmente tra loro.

L'interesse del bambino verso il gruppetto è diminuito. Poi c'è l'imprevisto. Con un bambino del gruppetto, il giorno che si è deciso di mettere fine al circolo vizioso, ho fatto un discorso riguardo il vendicarsi; le sue parole sono state: a me non piace vendicarmi, ma se a uno dici le cose mille volte e non le capisce allora l'unica soluzione è vendicarsi. Non sto meglio, ma almeno mi sono vendicato. Tra i due bambini, durante gli ultimi giorni, è scoppiata un'intesa davvero piacevole: e fa niente se questa intesa li porta a fare meno compiti: in questa situazione il compito per casa è sceso in secondo piano. Un giorno ho fatto notare al bambino vendicativo che stava ridendo e scherzando con E.: lui mi ha sorriso con il suo miglior furbo-sorriso.

Il lavoro è stato, infatti, impostato per confutare la sua affermazione sulla impossibilità di convivenza. Scopo non era, come detto, di farli diventare tutti amici, ma di creare un precedente di civiltà al quale rifarsi ogni qualvolta dicono/credono di non poterlo attuare. Una sorta di "ricordate che questo è stato" declinato però in positivo.

Siamo partiti dal calcio. Un gioco che praticano durante l'ora di gioco libero, al quale noi operatori partecipiamo e tramite il quale cerchiamo di far passare la bellezza del gioco (e delle sue regole) contro la necessità smodata di vincere (per esempio non dire che la palla ha preso il palo se è entrata...). E' anche un'attività alla quale tengono particolarmente (hanno le squadre, si tengono in mente la classifica, fanno lo scambio giocatori...), per cui adatta a esperimenti estremi di convivenza.
Il primo giorno dell'esperimento la partita è stata tesissima: tutti sapevano che non era una partita normale. Alla fine chi ha perso (la squadra del bambino E) è scoppiato in un pianto fragoroso. Essendo in squadra con me è stato naturale consolarlo come si fa tra compagni di squadra, la cosa bella è stata che nel dopopartita, sudati sulle scale, si sono scambiati una stretta di mano, si sono fatti i complimenti, hanno discusso su come si può migliorare (io è da tre anni che mi alleno, io sono solo pochi mesi, è per questo che...) e per due minuti sembrava di vederli tutti amici.

Sono stati due minuti, ma sono rimasti impressi dentro, perché dopo questa partita (a cui sono seguite altre attività per farli stare insieme senza che si beccassero), il rapporto è sensibilmente cambiato. Persistono tensioni, inimicizie, antipatie, simpatie, insomma: sono sempre bambini. Ma hanno smollato fuori la tensione negativa.

Stefano.

martedì 10 aprile 2012

Uno e tanti

Tra i diversi gruppetti di cui un gruppo è composto ce n'è uno che interessa particolarmente ad un bambino che vorrebbe entrarci. Non viene accolto. Per diversi motivi: non è simpatico, non ha i medesimi interessi, altro. A volte, guardando il suo comportamento, ti viene da pensare che non voglia nemmeno entrarci, ma solo dare fastidio. O forse dà fastidio perché non viene accolto. In ogni caso risulta evidente che tutto quello che può nascere da questo rapporto-scontro bambino/gruppo è una serie di episodi di aggressione, sberleffo, esclusione. Quando questi episodi diventano sistematici e immotivati (ovvero il motivo si perde nella notte dei tempi: gli ho nascosto la cartella perchè la settimana scorsa mi ha rubato il pallone) inizia un circolo vizioso per cui per tutto il tempo del doposcuola i bambini si cercano appositamente per darsi fastidio.

Allora l'intervento riparatore, che era sempre stato sottotraccia, improntato all'accettazione o all'ignoro dei comportamenti più aggressivi, diventa necessario.

Si parte da alcuni concetti base: la convivenza è necessaria: tra le 12:30 e le 16:00 si sta insieme. Non è necessario amarsi e trovarsi tutti simpatici; inclusioni, esclusioni, antipatie e simpatie non sono discutibili almeno finché non vanno a minare la convivenza (vedi in mensa: non ti siedi al nostro tavolo) per cui diventano inaccettabili.

Si prova quindi con la "gentilezza", nel senso di: civile, cortese, garbato. Si può dire no gentilmente. Si può giocare nella stessa squadra di calcio pur senza amarsi, ma con garbo e cortesia. Un atteggiamento civile insomma, per cui si capisce che gli spazi di tutti sono di tutti, che i giochi cui partecipano tutti tutti devono poter partecipare, che in aula compiti ognuno ha i propri e si può dialogare e confrontarsi. E significa anche: non per forza devi e puoi essere amico di qualcuno che non ti vuole. Che puoi provare con gentilezza e con gentilezza devi prenderti l'eventuale rifiuto che sarà a sua volta gentile.

Questa è la strada che in questo caso stiamo percorrendo. Il come è in fase di sviluppo (lavoro sui bambini e anche sui genitori che dovrebbero essere i primi a ispirare reazioni non aggressive e a proporre al proprio bambino di fare il primo passo). Funzionerà? Se questi bambini torneranno a vivere senza la necessità di darsi fastidio l'un l'altro pur senza arrivare ad un odio sordo e cupo (robe da adulti insomma), allora avrà funzionato. A giugno la risposta.

Stefano.

lunedì 13 febbraio 2012

Fuori dall'aula.

Ci sono diverse punizioni che si possono assegnare ai bambini. Se puniscono e basta non hanno senso. Devono essere chiare e motivate; meglio se inerenti alla "colpa"; una specie di contrappasso. Come nel gioco, alcuni sport lo prevedono: se giochi scorretto ti siedi in panchina qualche minuto. Questo in palestra è pane quotidiano, specialmente giocando a calcio o a rincorrersi. Superare il lecito nel gioco ti fa uscire dal gioco. In base alla gravità del fatto si modula la gravità della pena: se una cosa da poco e evidente, allora pena breve, se una cosa ripetuta e magari tendente al grave ci si ferma e si parla insieme di quello che è successo. Si cerca di capire dove è stato superato il limite, di quanto, quali le possibili conseguenze (non divertirsi, farsi del male), alla fine del discorso condiviso si torna a giocare insieme. Essere messi fuori dal gioco non è mai considerata una colpa irrimediabile, un'umiliazione: è come nell'hokey, una regola chiara da subito.

In classe è un'altra cosa. Praticamente non capita mai di dover arrivare a mandare fuori dall'aula qualcuno. Alle medie talvolta, per sedare situazioni troppo rumorose, si invita il più esagitato ad andare in bagno a rinfrescarsi (cosa che si suggerisce anche all'alunno bollito e perduto all'ufficio complicazioni affari semplici), ma niente di più, anche perché spesso chi si vuole contenere ci tiene ad uscire dall'aula.
Alle elementari mi è capitato quest'anno in due occasioni. Davvero limite. La prima è un alunno di quarta che minaccia di dare un calcio ad un bambino di prima perché questo faceva rumore: le minacce da bulletto sono intollerabili: fuori dall'aula. Dopo pochi secondi sono uscito anch'io, per parlare con il bambino. Gli ho fatto capire la gravità dell'accaduto (non una semplice lite, non un semplice diverbio, non una cosa da bambini, tutti atteggiamenti comprensibili e compresi) e il fatto che essere in quarta significa essere tra i grandi: le reazioni non sono comparabili alle reazioni dei bambini di 6-7 anni. Lui ci è rimasto male ad essere mandato fuori, ma il discorso che ne è nato, affrontato in tono adulto e pacato, ha sortito dei buoni effetti. Al rientro in aula ne abbiamo discusso anche con gli altri di quarta e quinta e da allora se qualche bambino più piccolo fa confusione viene trattato da bambino piccolo, per cui non attaccato e non preso in giro; un po' come il maestro fa con loro.
Il secondo caso è stato diverso; una bambina ha ritenuto che un'altra bambina (classe insieme, quarta) gli avesse sottratto qualcosa, allora le ha urlato in faccia "ladra, zingara". Di scatto, a voce alta l'ho mandata fuori, mi è uscito spontaneo. Lei si è bloccata ed è uscita, in classe si è fatto silenzio. Dopo poco sono uscito, e molto deciso le ho detto che certe parole utilizzate in questa maniera non sono assolutamente tollerabili. Mi ha detto che era uno scherzo tra amiche, le ho detto che queste non sono parole per scherzare, ma per offendere amica e popolo. Per cui non posso accettarle in classe: chi ha questo linguaggio resta fuori. Poi l'ho fatta rientrare, mi è sembrata scossa per qualche tempo, infine il rapporto è tornato tranquillo, la mia gentilezza nei suoi confronti non è cambiata di una virgola, spero di averle fatto capire qual'era il motivo profondo del mio agire e che con lei non ho niente.

Per concludere e tirare le somme; due sono le cose che tra bambini non tollero (tutto il resto, dal litigio all'insulto, dalla rabbia al pianto mi sembrano reazioni naturali, da gestire con moderazione, ma senza impedire a prescindere): il bullismo e il razzismo. Queste sono le due cose che possono farti escludere dal gruppo. Forse ce ne sarebbe una terza, che magari in altri paesi è niente tollerata: la furbizia (copiare compiti, mentire); cerco di essere molto duro anche su questo punto, ma bullismo e razzismo restano ampiamente i primi due atteggiamenti che possono escluderti. Sono bambini per cui si spiega bene cosa significa comportarsi e parlare agli altri, ma il limite credo vada messo e si deve far capire che oltre quello il dialogo si interrompe.

Stefano.

sabato 4 febbraio 2012

Educazione in mensa - 2

Ancora sulla mensa.
Ogni scuola ha regole proprie, essendo noi ospiti pomeridiani in qualche maniera dobbiamo rispettare tali regole. Anche perché se non fosse sempre valida una regola perderebbe di valore. Perché, per esempio, dobbiamo sempre assaggiare il cibo che abbiamo nel piatto prima di poterlo rifiutare? -Questa la regola in una scuola- Se noi non la applicassimo non sarebbe possibile rispondere a tale domanda se non con: perché le maestre vogliono così. E questa non è una risposta.

Ogni bambino poi, a casa, vive una situazione diversa, con regole diverse. Alcune cose sono concesse, altre no. Tutto è scollegato.

Nostalgia per un sistema di valori unico e condiviso? Nessuna. Ma se diversità è, che educazione alla diversità sia.

Come? Ogni giorno è necessaria una risposta diversa per domande simili, l'importante è non farsi prendere dal panico ed essere concentrati su quello che si fa. Non c'è un modo assoluto per stare in mensa: nessun problema, io ti propongo un metodo, provalo, valutalo, dimmi che ne pensi, magari troviamo una soluzione che ci soddisfi abbastanza entrambi.

Cerchiamo di trasmettere il piacere di condividere una regola, necessariamente compresa, necessariamente giustificata. Come avviene naturalmente nel gioco: "facciamo che partiamo dalla linea e quando il pallone tocca a terra partiamo. Ok?" "Perché dalla linea?" "Perché così siamo pari" "Ma c'è poco spazio per correre, facciamo di partire toccando il muro" "Va bene. Prendi il pallone".

Stefano.

martedì 24 gennaio 2012

Educazione in mensa

Per diversi motivi la mensa è spesso uno dei problemi maggiori per i bambini da affrontare. Talvolta si tratta di capricci, talvolta di cibo non all'altezza delle aspettative, talvolta di pancia ancora piena della megamerdenda di metà mattina, fatto sta che la problematica della somministrazione del cibo in mensa ci si presenta ogni anno per diversi bambini. Pur tenendo presente che ogni caso fa storia a sé e va analizzato attentamente stiamo elaborando alcune linee guida per affrontare al meglio le difficoltà del mezzodì.


1-  Non si dà forzatamente da mangiare ai bambini, non si dovrebbe insistere fino ad arrivare al rifiuto con sputo del cibo e pianto conseguente.
2- Allo stesso tempo non si accetta l'espressione "che schifo" in generale e soprattutto a-priori.
3- Si chiede rispetto di quello che si ha nel piatto e per il lavoro degli altri. Per questo motivo importante è l'assaggio o, in caso di completo rifiuto di una portata, la spazzolata delle altre.
4- Con chi è maggiormente in difficoltà si apre un dialogo, cercando, in casi estremi, un dialogo con la famiglia e possibili soluzioni ad personam (in casi estremi).


Finora il punto tre è stato di norma la base per una buon trascorrere del tempo in mensa, arrivare alle conseguenze del punto uno segna un campanello d'allarme per l'operatore che a questo punto deve passare al punto quattro e arrivare ad una soluzione per una situazione che probabilmente si protrae nel tempo ed è sentita dal bambino più di quanto si pensasse.


Stefano.